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“Come sono entrata a far parte di questa famiglia”. Un’infermiera racconta l’Ospedale del Cuore

La scrittura è un mezzo prezioso per vivificare le esperienze passate e permettere ad altri, attraverso il racconto, di sentirsi parte della nostra vita. Ed è  con un racconto che un’infermiera ripercorre il primo giorno di lavoro all’Ospedale del Cuore (all’epoca Opa). Un luogo che diventa subito casa. 
Sono passati anni, ma a lei quella sensazione è rimasta impressa sulla pelle: l’immediato senso di appartenenza, la chiara percezione di essere parte di qualcosa di più grande.  Un’esperienza che adesso, infermiera esperta, vuole condividere mantenendo il suo anonimato, perché in Monasterio le persone contano in quanto parte di una squadra.
Ecco le  sue parole, sentite e profondissime.

Ricordo bene il mio primo giorno di lavoro. Era un venerdì del maggio 2003. Avrei dovuto prendere servizio alle 7  ma, complice l’emozione, alle 6 e 10 varcavo orgogliosamente le porte dell’odierno Ospedale del Cuore!
Avevo discusso la tesi un mese prima e ottenuto diverse proposte lavorative, ma quella telefonata mi aveva scossa… l’allora Opa (Ospedale pediatrico apuano) era per tutti i giovani infermieri terra ambita, un sogno per chi desiderava fare la differenza. Frugando fra le matasse di ricordi, visualizzo come ero vestita: portavo un paio di pantaloncini color sabbia e una camicetta azzurra a maniche corte,  quel maggio era preludio di un’estate caldissima.  Le 6 e 10 di mattina, veramente presto, entrai nello spogliatoio avvicinandomi con orgoglio all’armadietto che mi era stato assegnato, indossai  la bianchissima divisa e guardandomi allo specchio pensai: bene, e adesso? 

Controllavo che non ci fossero residui di smalto sulle unghie e di non aver dimenticato braccialetti o anelli, su questo la dirigente che mi fece il colloquio era stata perentoria. Nel frattempo iniziavano ad arrivare le colleghe più mattiniere, alcune mi guardavano con sospetto, probabilmente mi si leggeva in faccia che era il primo giorno, cercavo di incrociare uno sguardo per potermi presentare, magari avrei incrociato una collega del reparto al quale ero stata assegnata. Quando finalmente eccola, a grandi passi avvicinarsi verso di me, con fare autorevole, la più alta delle donne presenti nello spogliatoio: mi tende la mano e mi chiede, in un italiano un po’ strampalato (ero ancora ignara di quanto avrei schernito quell’accento scozzese), se fossi la nuova infermiera della degenza adulti. Così per la prima volta Elaine entrò nella mia vita, la mia prima caposala (al tempo  chiamavamo così la coordinatrice), Avevo discusso la tesi solo un mese prima e ottenuto diverse proposte lavorative (ho avuto la fortuna di essere fra i primi laureati in infermieristica), ma quella telefonata in qualche maniera mi aveva scossa… l’allora Opa (Ospedale pediatrico apuano) era per tutti i giovani infermieri terra ambita, un sogno per chi desiderava fare la differenza.

Me lo ricordo bene il reparto con le stanze che circondavano un bancone di melamina bianca incorniciato da una finta radica di noce scheggiata come le seggioline di legno delle elementari sulle quali ogni giorno sfilavi un paio di calze e ti toccava sorbire le lamentele di tua madre… Sulla parete destra campeggiava un’enorme tabella, il bipbip dei monitor faceva da sottofondo al passaggio di consegne (l’odierno handover) fra il turno smontante della notte e quello del mattino nel quale finalmente avrei debuttato! Elaine mi presenta ai colleghi e alla mia tutor, una coetanea viareggina dall’aspetto molto mite, ……….

Fu così che entrai a far parte della grande famiglia.

A differenza dei reparti che avevo frequentato durante l’esperienza di tirocinio, mi colpì l’attività che già sembrava essere frenetica a quell’ora del mattino, (erano le 7 e nessun profumo di caffè nell’aria). Nel giro di 10 minuti eseguimmo circa 6 prelievi. Nonostante l’emozione iniziai con entusiasmo a prendermi cura dei pazienti che ci erano stati assegnati, la mia collega, armata di una pazienza fuori dal comune, (ponevo interrogativi a raffica che nemmeno Paolo Bonolis in ciao Darwin…) mi spiegava passo-passo tutto ciò che si doveva fare e perché… Intorno alle 12 ancora non ero riuscita a fermarmi  un attimo, finché mi chiamò Elaine per farmi il classico discorso di benvenuto (in realtà il mio traduttore ancora non era impostato per cui mi trovai ad annuire ad ogni raccomandazione…), mi consegnò un tomo di fogli, opuscoli, dispense e quant’altro da studiare con un categorico: “Tu devi studiare!”. E chi avrebbe avuto il coraggio di dissentire? Ok capo! In quel momento realizzavo di essere entrata nel miglior ospedale della zona, era tutto vero, le caposala inglesi (non me ne voglia Elaine e il suo spirito scozzese),il fantomatico dott……., l’accoglienza dei colleghi, mi sembrava di essere catapultata in una realtà cinematografica, una realtà della quale avevo sempre sentito parlare, ma che da quel giorno sarebbe diventata la MIA realtà! 

Si erano fatte le 14 ma l’adrenalina non accennava a diminuire, andiamo il turno è finito scriviamo le consegne (eh sì le consegne!). Mentre tornavo a casa riflettevo sulle emozioni contrastanti e sulle sfide che avevo vissuto, un po’ intimorita dal fatto di  non sentirmi  all’altezza di quel mondo, ma con la consapevolezza di volerne far parte. E così fu… Poi scoprii che il caffè si faceva anche lì. Ero talmente estasiata, incuriosita e orgogliosa che prima di percepirne il profumo dovette passare un po’ di tempo.
Quello fu il primo giorno. Da lì storia infinita……

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